La città rossa ci sovrastava.
Al largo di una fonte di tre bocche fermai le membra affaticate, stanche.

La prima arcata raccoglieva l’acqua. Acqua per gli uomini.
In un gioco di ritenzione e dono, l’eccesso di questa finiva nella seconda vasca accanto. Era per gli animali.
La terza un lavatoio.
Ciò che ancora traboccava, per i mestieri del giorno. I tintori, i mulini, le lane.

Tuoni lontani.
Mi domandavo quando sarebbe iniziato a piovere e la fontana avrebbe raccolto l’acqua ancora una volta. Il vento lasciò coprire di nuvole il ceruleo piano sovrastante.
Poi il tonfo come di cosa caduta e la preghiera.
Fatemi uscire da questa piscina”.

Una piccola donna vidi inginocchiata nella fonte. Ferita, pareva inabile a sollevarsi.
Mi avvicinai. La presi per la mano, sembrava una foglia. Ne colsi il fiato.
A me non usciva respiro. A lei si accendeva come fuoco. Ritornò suono. Da un corpo scheletrico divampò una voce sottile ferma che si fece sempre più ferma con il dispiegarsi del ricordo. Le parole affannavano, talvolta, non riuscivano a stare dietro al frugare dello sguardo e a tratti interrotte dalla foga di raccontare.

Nacque che era arrivata la peste. Nacque e perse una sorella. Nacque fra 25 bocche. In mezzo ad una guerra.
Non ebbi altra forma di protesta che ridurmi a nulla.
Rinunciare al sonno. Rifiutare il cibo. Ritirarmi al corpo.
E più mi sottraevo alle schiavitù comuni più trovavo ristoro. Mi rallegravo.
Per 15 anni non conobbi che le mura della mia casa. Quando grida di dolore dalla strada mi chiamarono al mondo. Allora mi destai. Fuori di casa era la guerra. Sofferenza, ineguaglianza. Amor proprio come unica pretesa da appagare. Creature finite e imperfette chiamate principi, imperatori, papi.
Cechi incapaci di governare le proprie passioni a guidar nazioni.
La conoscenza è innanzitutto conoscenza di se stessi, comprensione e accettazione della propria imperfezione e finitezza. L’occhio dell’intelletto se chiaro allontana le nubi dell’amor proprio.
In questa rossa landa ferita da curare trovai il Signore mio continuamente offeso. Nessun amore a fondamento.
Dicovelo. Io scelsi di coltivare il suo perdono amando i più miseri fra i miseri, battendomi per la sua parola.
Ma non poteva la madre mia lasciarmi andare senza stuolo.

Erano ritenute in grande conto donne col mantello, attente a pie opere. Ricche, nelle loro case cittadine. La madre mia, che non volle lasciarmi sola in questo intento, ad esse mi affidò. Chi porta il mantello ha sempre affari da coprire.”

Troppo giovane.
Troppo bella.
Troppo poco danarosa.
Non la vollero le pie donne fra di loro.
E poi è presuntuosa, dicevano alle altre.

Io non le ascoltavo. Non mi occupavo delle ciarle di quelle donne. Le voci per me venivano dall’alto. Ciò che volevo disponevo.
Io vedevo il Nazareno. Visioni di puro amore. Aperto petto, mi donò il suo cuore e nel suo il mio prese. Egli viveva in me e io in lui.”

S’interruppe. Tremava. La attraversava una forza che a stento le ossa trattenevano.
Come se di quella forza risentisse anche il vento, fummo spinte a ripararci da una folata più intensa. Poi piovve. A lungo, senza posa.

Con esso Amore mi muoveva. E Amore, soprattutto, decisi fare bene all’umanità scontenta. Persa nel dolore che l’acqua non stinge. Vera fonte di cura, guida. Si accerta della sua salute, la mantiene. Medica. Ritorna il sottratto. Compensa il vuoto di certo abbandono. Desideravo fortemente rigenerare il tutto.
Amando l’uomo amavo Dio. Ed amando lui mi verrà restituita l’antica gioia. Beato stato, antico aspetto.
Nascere è piombare nel corpo. Separazione da ciò che fece intera l’anima nostra. Il corpo custode ne porta il brandello in giro nel mondo. Il corpo carceriere. Fonte di puzza e purulenza e io ad esso giammai non mi abbandono. Nella ricerca di quanto smarrito finii a questa fonte.

Amore spinge, amore tende, amore scopre.

Medica questa mia ferita.

La prima più grande dipartita.

Fu il Nazareno la mia sola guida. Gioia di questo cuore. Non mi feci suora, nè conobbi clausura che il mio corpo. E perché poi? Cristo era ovunque.
Cristo era con me. Indicava la strada che facevano i miei passi. E difficile era riconoscere alla sua istituzione, a chi diceva di rappresentarlo, primato di perfezione.

Era la chiesa trascinata fra due stati. Sposa senza posa. Preda del volere degli imperi.
Io piccola, io ignorante, io miserabile figliuola, Iddio fece roccia e vi innalzò il plantare. Innanzi a papi, a dotti e potentati.
La mia cella contenne il mondo.

E scrissi. Ribadii con la parola.

In nome di Gesù crocefisso e Maria dolce scrissi al custode del cellaio di Dio, all’uomo che doveva rimanere portinaio vigile sulla soglia a rappresentare il suo sangue in terra.
Dissi al papa: Abbiate, abbiate fame e levatevi sulla croce del desiderio, mirate quanto male diffonde in questa terra. Seguite le vestigia del dolce Nazareno, incarnate l’innamorato verbo. Pace. Pace sia, pace subito!
Il vigore della denuncia la stremava. Sembrava esaurirle il fiato. Poi riprendeva cantilenando:

Amore spinge, amore tende, amore scopre
medica questa mia ferita.
La prima più grande dipartita.
Venite, venite, scrivevo, non aspettate tempo. Il tempo non vi aspetta. Non c’è più madre di tutti li cristiani. I re sono tanti alle sedute. Se siete accanto a uno piuttosto che ad un altro, i figli confondete gli uni contro gli altri.
Ma male consigliato è sempre stato. Di fiori puzzolenti circondato. Incapace di estirparli e trapiantarne profumati. Steli virtuosi, in Dio timorati.
Divenni io madre, allora, in quella confusione di cannoni e cuori mutilati, morte, maleodoranti fiori. Io parlavo di Dio. Con Dio.

Adottai tutti.
L’unico monastero che conobbi fu quello che costruimmo insieme. Una famiglia. E amore ci dovevamo.
Desiderai il cielo con cupidigia inalterata e le visioni di Gesù dolce si fecero sangue e fuoco stillanti dal costato del figlio di Dio. Consumavano il corpo ma esaltavamo l’etereo in esso rappreso e la mia anima volava a colloquio con ogni tipo di signore.
Insieme a me donne e uomini incontrati lungo la strada, tutti figli miei. Con me nei viaggi presso i potenti della terra, furono la mano che trascriveva il fervore delle mie visioni, il fuoco del verbo mio. Furono al mio fianco nell’estirpare da terre lontane la sposa di Cristo, la casa nostra, smarrita chiesa.”

Cadde su un ginocchio. Corsi a sollevarla. Non si teneva in piedi scheletro di pelle. Prese il mio braccio, alzo il capo e guardandomi attraverso proseguì come aveva fatto fino a quel momento. Prima lentamente, come se volesse prender fiato, poi sempre più vigorosa come se guardando in troppi posti contemporaneamente non le tornasse il conto e se ne tormentasse.

Ora io vi vedo chiusi nelle vostre mura a illudervi che il mondo sia solo quello che avete a portata di una mano. Ritirarvi alle faccende della città come non fosse vostra occupazione la madre che avvelenate e l’unica cosa che rimanete buoni a produrre e puzza e immondizia e collera repressa.

Scrivi! Scrivi che bisogna avere fame di giustizia senza la quale non v’è opera che vive. Crollano le pietre che mettete insieme e sfuggite alla coscienza della creaturalità che vi conforma, che siete finita imperfezione.
Fuggite, vi riproponete come Dio, ordinate nuove macchine che sappiano svolgere le vostre mansioni eppure rinunciate ad ordinare l’animo vostro a trovare la concordia con il vicino. Fallite nella vostra piccola realtà vi rifuggiate altrove a fare giochi per bambini non cresciuti. Ed è l’idea di voi stessi che amate non l’ideale che non vedete, non la sorella o il fratello vostro che vedete.
Sapeste insegnare almeno loro a ribellarsi al posto vostro. Ma non potete. Avete smarrito il fervore. Mantenetevi nel fervore!

Accendete luci. Mettete a fuoco i paesi. Rivoltate i vili. Senza perdere la carità. Solo della paura abbiate timore.
A ribellarmi io ho imparato dal mio corpo.
Ne persi uno appena nata. Da esso ho dichiarato la mia guerra, unico ostacolo alla comunione d’amore con Cristo.
La carne vidi dà solo puzza e veleno. Peccato e corruzione. Noi siamo solo vuoto ed illusione di pane. Come una pendola fra essere e sua assenza. Ma rispetto alle bestie questo vuoto, penso, può saziarlo lo Spirito. Nulla sazia se non l’amore. E chi continua ad avere fame non lo ha lasciato entrare ancora.
Io rinunciai a riempire questa forma con falso nutrimento.
E se pur, in questo mondo che tu vedi, non saremmo stati salvi non cedevo all’inganno che l’anima si nutra con il grano. All’albero della fede colsi i miei frutti. Frutti di grazia.
Io che sentivo l’eterno, no, non potevo accettarne il confine.
Solo la parola riuscivo a far volare in un unione che ci faceva liberi. Solo la parola. Colomba, anima mia.”

Ascoltai queste ultime parole. La pioggia era finita e si incamminò lieve sulla strada che dalla fonte alla città saliva. Saliva e il vento ne portava indietro i sussurri cadenzati ancora.

Amore spinge, amore tende,

amore scopre, medica questa mia ferita.

La prima più grande dipartita.

Libera. Il corpo, l’ultima cosa che ricordai svanire fra mura rosse.

Prenota un appuntamento

Acconsento al trattamento dei dati come descritto nel documento di Privacy Policy.

Nutrizionista e Fitoterapeuta