“C’è un mattino agli uomini nascosto_
dove fanciulle sopra un verde remoto
festeggiano un maggio serafico
e tutto il giorno ballano e giocano
incredibili corse
tempo di gioia.”

Emily Dickinson

Quando cademmo non eravamo ancora arrivati.
Proseguimmo in linea retta insieme sulla terra fin quando non sopraggiunse il mare. Una piccola imbarcazione mi portò alla prima spiaggia. A tratti cadevano massi dalla montagna alle spalle. Le ballerine gialle veloci volavano dal mare alle fessure della scogliera. In fondo una grotta da cui pendeva un fico, fiori a calice bianchi, il capelvenere. Accanto un’altra piccola a cui arrivammo a nuoto. C’erano cumoli di pietre collezionate dal tempo. Nascosti dietro rifiuti fetidi in due sacche di plastica spessa. Ampi vasi, piatti. Un bastone di metallo con fiori intarsiati. Lì finiva quello che non riuscivamo a smaltire. Nel ventre della terra. Ne riempimmo la barca, lasciandola tornare a riva. Ebbi un conato di vomito.
Alla prima piccola conca di spiaggia sentii riparo. Veneri d’agosto cercavano la madre nella roccia. Qui, nelle grotte di mare sedevano su troni tronchi, domandavano amore. Salute per grandi imprese. Piccole gocce brillanti stillavano dai frastagli calcarei. Ne consacravano i capi. Chiesi il permesso di entrare, una foglia d’oro lo concesse.
Per proseguire il viaggio mi mantenni vicino alla costa a nuoto e a piedi, dove la pietra lo permetteva. Arrivati a una piccola vasca ci immergemmo al bagno come neonati. Un granchio mi pizzicò, allora ci avviammo. A nuoto seguimmo il profilo di costiera affacciandoci in ogni sua gola. Di una l’ugola sporgeva. Entrai seguii il decorso approfondarsi con le dita sulla parete umida. Sedetti a gambe incrociate. Raccolsi un piccolo sasso a forma di cuore. Lo tenni con me. Dal buio a cui ero in grembo scorsi una luce. Mi immersi senza immaginare cosa fosse dall’altra parte. Le mani tese solo verso la luce. Emersi. Una nuova piccola conca. Nessuna spiaggia. Dalla roccia pomodori di mare come fiori carnosi. La carcassa di un topo. Pesci argentei striati dal bracciale scuro alla pinna. Pesci neri dalla coda bifida. Foreste di piccole alghe bianche. Mi si parò davanti una altra parete. Piuttosto che nuotarle intorno, attraversai una delle gallerie sommerse. Percepivo luce dall’altra parte non poteva essere troppo lunga. Emersi, mi mancava il fiato. Bevvi l’aria come il primo nutrimento. Dallo scoglio che mi si parò di fronte sporgeva una penna di gabbiano. La presi, la tenni come nuovo dono.
Decisi di proseguire per terra. Uno scoglio meno tagliente permetteva la risalita, il resto lo facevano delle scale ricavate nella roccia.

Il sasso a cuore, la piuma. Il cuore se lo prese la montagna. La piuma il mare.
Alla fine delle scale ritrovai dei viaggiatori.
Ci inoltrammo fra cose confuse che il ricordo trattenne a stenti.
Continuammo ad est su pianure spoglie e quando l’ultima duna di rami secchi si inclinò davanti, la percorremmo quasi non accorgendoci degli alti pini che ci sovrastavano. Simili a quelli del mare dei giochi dopo cui c’è sempre un azzurro, vela. Nuvola.
I miei compagni iniziai a sentire meno.
Si attardavano sotto l’ombra che creava la pineta. Li sentii abbracciarsi. Prima ancora, guardarsi, cercarsi i volti. Avere paura di perdersi. Poi tenersi. Per loro quel viaggio era finito. Non ebbi risentimento. Capii che erano arrivati. Era loro stessi che stavano cercando o si erano distratti. Non ne è qui il racconto.
Un attimo l’invidiai. Lo spazio di un secondo. Il viaggio mi richiamò. Non era finito. Ero poco a limine della cunetta che valicava. E quando ne fui in cima dimenticai che ero sola.
Una baia. La notte.
La cima di terra su cui ero, scendeva dolce a mare. Schiudeva una conca.
Ma tutto questo venne dopo.
Per gli occhi mi teneva la luna. Gravida di luce. Galleggiava all’orizzonte fra aria e acqua. Sulla spiaggia ombre farsi più chiare, un mondo risalirmi agli occhi.

La luce piena della luna illuminava ogni piccola cresta d’onda fino ad una grande testa chiara che sporgeva fra riva e cielo rompendo la continuità dell’acqua.
Era in mezzo al mare immersa una enorme statua il cui solo volto, le acque, non tenevano sommerso. Forse, dalle fattezze, greca. Raffigurava un giovane dalle proporzioni perfette. Guardava il suo volto a occidente. Pensai fosse una divinità del posto. O anche un approdo temporaneo su cui durante una nuotata potersi appoggiare. Per poi tornare indietro. Per derivare altrove. Per perdersi nei baci.
Più indietro a riva c’erano ombre, avorio sporco. Bagnanti. Morbide le forme tornavano da un bagno. Alcuni da piccole piscine scavate nella roccia. Dal vento e dalle foglie. Altri si bagnavano nel mare. Ma tutti una volta tornato all’altro si davano all’amore. Si carezzavano e provvedevano l’uno all’altro.
Pensai che non era strano che queste creature cosi tenui scambiassero la notte per il giorno.
Siamo state creature nel buio per lungo tempo. Il giorno era di grossi mostri a squame dal sangue freddo. A questi animali che sovrastavano con la loro violenza la terra bisognava nascondersi. Solo il sole dava al loro sangue potere di circolare. La notte era per chi quel sole lo manteneva dentro. Per piccoli animali a sangue caldo.
Quelli che di noi hanno resistito, sono quelli che vivevano la notte. Non temendo l’indistinto che la sola luce delle stelle crea.
Piccoli, dicendoci indifesi, resistemmo tenendoci vicini. Crescemmo avemmo dei di poca luce. Tanti.
Ne dicemmo stelle. E quando una cadde sulla terra e distrusse i mostri giganteschi di squame e sangue freddo, noi ne conquistammo il tempo e anche il giorno.

Ad uno spettatore che giungesse dal fondo della valle sarebbe potuto sembrare che volendosi del bene, le genti sulla spiaggia, adorassero quella divinità di marmo la cui sola testa riccia ed inclinata emergeva dal mare.
Solo dopo i più attenti avrebbero inteso che la luna li governava con il suo solo arco. Ne sovrastava il gioco.
Uscivano dai loro fiordi quando essa ricompariva in cielo e ricominciavano le attività vitali lasciate ferme al suo sparire. Tornavano per mare con le barche. Ai pesci con le reti. Al pane con le mani. Vi si imprimevano come l’ostia sulla lingua la domenica mattina.
A mare cadevano le reti e i pesci incantati dalle luci sovrastanti finivano in esse senza spazio di guizzare.
Non avendone conosciuto il giorno, non capii mai come facessero a custodire spighe di grani.
Un campo che provvedeva al nutrimento delle creature nel suo raggio. Spighe dorate. Figlie di montagna. Custodito era questo campo come un cuore. Lo spazio più devoto e più importante. Ad esso salivano dal mare come ad un altare. Non tutti potevano toccarle. Esse sceglievano le mani e in esse rimanevano. Con esse trasmigravano.
Eppure, pare che un ruolo decisivo lo avessero i canti delle donne. Sulle barche quando cantavano, il pescato nelle reti, era sempre il più abbondante. E così nel piccolo campo di grano, custodito come pezzo di sole, quando le messi curavano con il suono di un canto, innalzato senza posa, salivano spighe come biondi capelli dal capo della terra. Era cibarsi questione di comunione.
Tanti si chiesero cosa cantassero. Io, che colsi di sfuggita qualche nota, intuii ringraziare. Mi sembrò abbastanza. Quando seppi che nei canti erano i loro Dei. Intesi. Sapevano, aliti di penombra, che ogni volta, ogni volta che andavano per mare o ai campi si muovevano al seno della madre. Ad esso ritornavano. e nel tempo chiamarli e ringraziarli era divenuta una cosa sola.
Ero incantata da tanta pace viva. Da tutto lo splendore che mi stavo raccontando. Sarei voluta restare ma non osavo. Non era, nonostante tutto, casa mia. Sapevo di dover andare.
Quando la voce disse “ascolta”.
E seppi del giardino. La montagna aveva una pancia di terrazzi. Pianori di terra ove erano possibili frutteti, orti chiusi. Pergole di limoni. In particolare ogni limone, ogni goccia di sole sfusato custodiva le parole che ciascuno non riusciva più a dire.
Fin quando i limoni avessero continuato a splendere non ci sarebbe stato di parlare bisogno nella notte. Perché prima che queste gocce cadessero sulla terra avrebbero illuminato il volto dell’altro trovandoci il proprio paradiso.
Intorno ad essi, nel tempo in cui ne sbocciavano i fiori piccoli e bianchi come promesse, danzavano fanciulle con la grazia della gioia leggere senza il sacrificio di un solo petalo.
Prima di rimettermi in cammino chiesi tre limoni.
Ero stata una visitatrice attenta. Sapevo di non poter restare e non avevo toccato niente. Mi fu permesso di prenderli.
Una volta lontano dall’albero, forse perché intorno ad esso non danzai nè lasciai canti, ne marcirono due. Li lasciai alla terra.
Appoggiai alla bocca il terzo, alle narici, ne respirai il colore. Tornai indietro.
Una volta nelle mani, i limoni, le parole le donavano. Cantai sulla strada nell’alba diversa.

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Nutrizionista e Fitoterapeuta