Il refettorio dalle finestre alte non conosceva luce e neanche nutrimento.

L’ora dei pasti, un’imboscata. La vista si perdeva su lunghi tavoli male apparecchiati di legno scuro a cui non sedere nessuna parola. “Silenzio, quando si mangia si combatte con la morte”. Rassicuravano le suore. E non sapevamo mai dove mettere le mani. Sopra il tavolo. Schiaffi. Sotto il tavolo. Schiaffi. E le vite dei santi durante il pasto. Sedute, attendevamo la grande pentola di rame. Pregavo santa Teresina di Lisieux che nel pentolone non ci fosse un pasticcio indefinito di pasta scotta. O che fra le lenticchie e i fagioli non fossero assai le scorze nere. Che la cotica non avesse i peli e le alici un poco di carne vicino alla spina. Quasi tutti i giorni nel pentolone c’era la pastacolla, pasta così cotta che si era fatta colla e sugo e formaggio appoggiato solo sopra.

Per me, fra le più piccole, la pasta arrivava dal fondo. Una porzione di pastacolla bianca come le mie mani. Volevo morire. Correre fuori e mangiare le erbe rampicanti che a volte con le mie amiche raccoglievo per riempire la pancia anche se mi facevano uscire le bolle per tutto il corpo e dopo un poco, pure vomitare. Giravo la pastacolla in bocca in continuazione. Prima a destra poi a sinistra. Poi a destra e così via. Non se ne scendeva. Ma poi alla fine andava giù perché me ne dimenticavo e altro da mangiare non c’era. La cotica arrivava la domenica. Pastacolla e cotica. Cotica con ancora i peli del maiale. Ora, a me, i peli dei porci non solo mi facevano schifo ma soprattutto mi graffiano la gola. Però bisognava mangiare perché la testa altrimenti finisce nel piatto. Domenica scorsa mentre suor Colomba leggeva la vita di San Francesco di Sales, io ero impegnata a non sputare il boccone. Provavo a far scendere giù la pastacolla. La passavo prima a destra della bocca poi a sinistra poi di nuovo a destra fino a che, ingannando il corpo, riuscivo ad ingoiarla.

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Tutto sembrava andare bene fin quando non arrivò la cotica nel boccone. Destra, sinistra poi ancora destra. Provai a buttarla giù. E da lì non avevo più comando sul mio corpo. Si ribellò. Non ce la feci a mandare giù e iniziai a vomitare. Vomitai tutto. Acqua, pastacolla, pane raffermo del mattino. Pensavo mò se ne vanno pure gli intestini. Rimasi lì con le interiora strette al braccio e vomito giallo fra le dita. Sul grembiale. Sapevo che San Francesco di Sales mi avrebbe perdonato. Le discepole di Gesù, no. Mi toccò la testa nel piatto. Puzzavo d’acido. Aspettai in un angolo sporca che tutte finissero. Poi pulii tutto il refettorio e la cucina. Mi mancavano le forze. Dopo una giornata intera avevo quasi finito. Fuori nel giardino uscii a posare i sacchi di immondizia. Un profumo nella notte mi rapì. Non riuscivo più a muovermi. Sapevo che dovevo rientrare e non potevo andare. Era proibito sostare nel giardino. C’erano tanti alberi da frutta. Cento, mille, assai. Non si potevano toccare. Guardare, respirare. Era il gioco segreto che ancora era concesso. E noi dai cancelli che ci chiudevano il giardino cercavamo la curva delle mele con gli occhi. Trattenevamo l’odore del fico. Era così dolce di notte l’odore del fico. Pareva che si rilassava dopo il fuoco del giorno. Era così dolce l’odore del fico e la luna piena. A Pochi passi un arancio. Già l’odore mi portava in posti lontani dove per cogliere un frutto dovevi chiedere il permesso solo all’albero. La stanchezza svuota e così in me ci fu tanto posto per immaginarmi piccolo fiore bianco di quell’albero. La luna illuminava una faccia del frutto tondo oro e fuoco. Piano piano la piccola mano da sola si alzò dal lembo del grembiule ancora sporco di vomito e salì a quel raggio di luna. A quel pomo d’autunno. Sfiorai la scorza pensai che la luna doveva avere la stessa superficie liscia e rugosa. Ogni cosa illumina il suo simile. Lo strinsi e tirai piano verso me. Il frutto fu al mio petto con poca fatica. Lo tenni al cuore. Spinsi poi le dita nella scorza. Schizzi di profumo travolsero le narici. Approfondai le dita nella polpa. Diviso come ostia lo portai alla bocca e succhiai come forse avevo fatto solo dal seno di mia madre. Tornai a una sera d’estate. I grani da poco mietuti. I contadini tornano alle case appena il sole dà tregua sui loro campi accesi di sole. Cantano mentre lavorano. Cicale laboriose. Riesco a sentirle dal monastero quando il vento è a favore di orecchio. Di ritorno dai lavori. Passano e lasciano ai cancelli frutta. Pesche, qualche melone, albicocche. Lasciano da mangiare alle orfanelle. Che più triste di chi il mondo lo patisce c’è chi non lo può vedere. Tendiamo le mani. Cadevano fra le dita i frutti. Ringraziamo con gli occhi portiamo alla bocca. Un giorno ai cancelli arrivò una fiamma. Insieme ai contadini un ragazzo dai rossi capelli lasciò cadere una pesca fra le mani tese dai cancelli […]amelia rocco

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Nutrizionista e Fitoterapeuta