[vc_row][vc_column][mk_highlight text=”In fondo, `{`…`}` si sente oggi che il lavoro come tale costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno e riesce a impedire validamente il potenziarsi della ragione, della cupidità, del desiderio d’indipendenza. Esso logora straordinariamente una gran quantità d’energia nervosa, e la sottrae al riflettere, allo scervellarsi, al sognare, al preoccuparsi, all‘ amare, all’odiare”. Friedrich Nietzsche, Aurora, 1881″ el_class=”Friedrich Nietzsche, Aurora, 1881″][vc_video link=”https://www.youtube.com/watch?v=p0U-TAyuWd4″][vc_column_text]L’Ottocento fu il secolo in cui il processo tecnologico si fece più rapido. La macchina fece la sua comparsa e l’uomo ne fu travolto. La letteratura la esultò, la temette, la celebrò, la maledisse.
Più l’Ottocento correva alla fine più le novità tecnologiche, le macchine, modificavano la vita dell’uomo: le ferrovie, i piroscafi, il telegrafo “con i suoi fili si tira tutta la pioggia, e se la porta via” pensavano i pescatori di Verga ad Aci Trezza.
Il telefono, il gas, il cinema, l’aereo sconvolsero abitudini e ritmi. Turbarono un mondo già socialmente sconvolto e i loro effetti sull’animo umano si intrecciarono con quelli prodotti dall’organizzarsi degli operai e dal ribellarsi delle donne.
Così fra Ottocento e Novecento forte fu la tendenza al rifiuto della macchina vista come prova della degenerazione umana che toglieva alla vita naturalezza e bellezza.
Nel 1905 Mario Morasso scrisse tutto un volume “La nuova arma” e osservò[/vc_column_text][mk_blockquote]“ Io ho la convinzione che la macchina sarà il principale modellatore delle future coscienze, il più profondo ed efficace educatore della società umana, che essa sarà l’emblema, il perno della forma di civiltà che sostituirà la nostra…la realtà oggi ci presenta la bella e maestosa furia metallica, avvolta dentro una nube di polvere, retta dalla mano dell’uomo in tale corsa delirante che pare una caduta verso l’abisso.”
E due anni prima in un altro libro “Il monumento del lavoro e cioè la macchina, ecco il solo e il vero monumento moderno…anzitutto la macchina significa l’idealità più alta, la passione più accesa esistente nei popoli moderni e ne simbolizza la preoccupazione più affannosa – il lavoro- come la piramide esprimeva la preoccupazione più acuta, quella dell’oltretomba, per gli Egizi.”[/mk_blockquote][vc_column_text]Otto Spengler, è uno di quegli scrittori che per un certo numero di anni sono notissimi, e tutti li leggono, poi vengono superati e non se ne ricorda più neppure il nome. Autore de “Il tramonto dell’occidente” pubblicato nel 1918 un libro che a lungo fu una sorta di best seller scrive “La scientia experimentalis“.[/vc_column_text][mk_blockquote]”L’interrogazione violenta della natura per mezzo di leve e di viti, ha dato inizio a ciò il cui risultato ci sta oggi dinanzi agli occhi: lo spettacolo di camini di fabbriche e di altiforni…essi strapparono alla divinità i suoi segreti per divenire essi stessi Dio. Essi spiarono le leggi del ritmo cosmico per usar violenza su di esso e così crearono l’idea della macchina, piccolo cosmos obbediente esclusivamente alla volontà dell’uomo. Con ciò essi oltrepassarono quel limite sottile …”[/mk_blockquote][vc_column_text]Per D’Annunzio essa non è uno strumento pensato e costruito dall’uomo ad alleviare la sua fatica, a migliorare la pena quotidiana del vivere o se lo è, è brutta e vile come è l’uomo comune. La sua nobiltà può venirle solo dal contatto con il Superuomo. L’esteta.
E Svevo il cui linguaggio scava nelle cose e nelle coscienze che ne pensava? Svevo ne “La coscienza di Zeno” arriva ad attribuire alle macchine la responsabilità del nostro degrado.[/vc_column_text][vc_column_text][/vc_column_text][mk_blockquote]“Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può che appartenere alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrosso il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa si interrò e il suo corpo si conformò al suo bisogno…ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa[…l

Altro che psicoanalisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.”[/mk_blockquote][vc_column_text]Qualche anno dopo la pubblicazione della Coscienza di Zeno, Freud si domanda in un saggio del 1929, “Il disagio della civiltà”:[/vc_column_text][mk_blockquote]“Se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo e se usa gli stessi mezzi, non saremo giustificati nel fornire la diagnosi che alcune civiltà o epoche civili – forse l’intero genere umano – sono divenuti nevrotici per effetto del loro stesso sforzo di civiltà?”[/mk_blockquote][vc_column_text]In Pirandello la figura della macchina e della alienazione a cui essa avvia è centrale ne “I quaderni di Serafino Gubbio Operatore” del 1915[/vc_column_text][mk_blockquote]”Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie afflitte da un verme solitario… Mani, non vedo altro che mani…Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che qui sono condannati ad essere mani soltanto, queste mani, strumenti. Hanno un cuore?…e a poco a poco m’invade tutto l’orrore della necessità che mi s’impone di diventare anch’io una mano e nient’altro.”[/mk_blockquote][vc_column_text]A parte c’erano i Futuristi che si battezzarono così in quanto protesi verso un futuro di macchine come il prodotto maggiore dell’uomo ed il prodotto che avrebbe creato il futuro. “Noi” dissero nel manifesto del futurismo 1909-[/vc_column_text][mk_blockquote]“Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche…”[/mk_blockquote][vc_column_text]E fu un francese, Apollinaire, loro contemporaneo a esprimere il senso di solitudine e rischio che una tale impresa comportava.[/vc_column_text][mk_blockquote]“Voi, voi la cui bocca è fatta all’immagine di quella di Dio…siate indulgenti a paragonarci a quelli che sono stati modelli di ordine, noi che invece andiamo in cerca di avventura…Pietà per quelli che combattono alle frontiere dell’illimitato e dell’avvenire, pietà per i nostri errori e per i nostri peccati.”[/mk_blockquote][vc_column_text]luigi_di_ruscio Poeti operai è una definizione coniata da Pasolini per distinguere gli scrittori di professione autori di versi o che in fabbrica lavorarono soprattutto nella comunicazione, come Volponi, Sinisgalli, Fortini, Giudici, Ottieri tra gli altri, dagli autori di versi che conoscono il mondo della fabbrica sulla propria carne per la loro esperienza diretta di lavoro quotidiano con la macchina.
Luigi di Ruscio è uno di loro. Viene al mondo nella povertà del vicolo Borgia, a Fermo, autodidatta, muratore disoccupato e poi militante di base nel Pci di Palmiro Togliatti. Nel ’57 emigra ad Oslo e acquisisce lo status per lui definitivo di operaio metalmeccanico nella fabbrica fordista. La fabbrica darà materia prima alla sua condizione personale ma non basta da sola a spiegare, tanto meno ad esaurire, lo spessore della sua voce poetica, il ritmo e il tono inimitabile della sua pronuncia. La quale è una splendida eccezione, una assoluta singolarità, nel panorama della poesia italiana del secondo Novecento.

Non un poeta-operaio come pure e sbrigativamente si è detto tante volte, quasi si trattasse di sommare il sostantivo all’aggettivo, o viceversa, ma un poeta capace di rielaborare la condizione operaia alla stregua della condizione umana.
La marginalità, il lavoro in fabbrica, un orizzonte politico che il dopoguerra presto richiude, qui in Italia come altrove,  sono tutti suoi temi  di riferimento.[/vc_column_text][mk_blockquote]Mio padre era muratore
e quando vedo i muri delle chiese
non penso a Dio
ma ai muratori e a mio padre
ed ora tocca a me diventare un padre
dopo essere stato figlio per troppo tempo
con una identità irrepetibile
come i piccoli segnali luminosi
pronti a sparire per sempre[/mk_blockquote][mk_blockquote]

“Le ore sei sono l’inizio della nostra giornata
noi siamo l’inizio di tutti i giorni
inizia il giro delle ore sulla trafilatrice
che mi aspetta con la bocca spalancata
inizia la mia danza il mio spettacolo
in certe ore entra nel reparto una chiazza di sole
e lo sporco nostro è schiarito come nelle immagini dei santi
rubo il tempo per una fumata che raspa nella gola
spio i minuti sul quadrante dal grande occhio
e tutto ad un tratto ci scuote l’urlo della sirena
ci attende il riposo per la sveglia di domani
la suoneria che entra dentro i sogni esplodendoli
ed ecco un nuovo giorno della mia esistenza
con l’allegria fuori della mia ragione”

La domenica la passiamo a ballare
oppure al cinema
oppure quando la squadra andava bene
a vedere la partita
a discutere al caffè per tutta la sera
d’un rigore che non dovevano dare
d’un fallo
di un tiro sbagliato
e nati tra queste mura
abbiamo fatto insieme tutte le cose
la scuola la prima comunione
gli stessi sogni di fuggire
e insieme abbiamo passato la guerra
nutrendoci di centocinquanta grammi di pane
che non basta ad empire la bocca una volta
e il fascismo lo abbiamo conosciuto
e l’arrestare sempre qualcuno
perché il lavorare di tanto in tanto
è la storia di sempre
come il discutere di partire per l’Australia
o di andare volontari
a non soffrire più la miseria
ed ogni giorno ci prende il gusto più forte
di ridere alle solite cose
che dicono sulla patria e su dio
per convincerci a morire come siamo nati.[/mk_blockquote][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_video title=”150 grammi di pane @laterramitiene2019. II parte.” link=”https://www.youtube.com/watch?v=t8BIWPz06Tc” animation=”right-to-left”][vc_column_text]I poeti, nervosamente sensibili, inclini a mitizzare le cose e le nostre azioni di fronte alle cose hanno avuto un ruolo fondamentale nell’affidare all’eterno la macchina, la fabbrica, la condizione di sottomissione umana, il degrado dei consumi e la militarizzazione del quotidiano.
Dall’inizio degli anni 1950 Ferruccio Brugnaro è operaio a Porto Marghera. Autodidatta. Entrando a far parte del Consiglio di Fabbrica Montefibre-Montedison, diventa uno dei protagonisti delle lotte per i diritti dei lavoratori. La sua attività di scrittore inizia nel 1965, quando distribuisce ciclostilati di poesia, racconti e pensieri presso i quartieri e le scuole frequentati dai lavoratori in lotta.[/vc_column_text][mk_blockquote]

Compra, consuma sempre
Compra, compra più che puoi
consuma, consuma. Chiavatene
di qualsiasi rapporto.
Schiaccia tutto e tutti
compra sempre, porta tutto a casa
più che puoi.
Riempiti, riempiti con avidità.
Non guardare in faccia
nessuno.
Circondati di alte mura
che non ti raggiunga l’erba
o voce umana
affonda, affonda nella merda
più che puoi.
Sta bene in guardia
compra, porta a casa
consuma sempre.
Guarda in giro, sta attento
che non ti derubino
schiaccia
qualsiasi fiore
qualsiasi pianta.
Compra compra sempre
porta a casa
più che puoi
consuma consuma
affonda, affonda nella merda
merda merda merda.

Tutti assolti al processo per le morti al petrolchimico

Lavoravamo tra micidiali veleni
sostanze terribili
cancerogene.
Non affermate ora
furfanti
ladri di vite
che non c’era alcuna certezza
che non c’erano legislazioni.
Non dite, non dite che non sapevate.
Avete ammazzato e ammazzate ancora
tranquilli indisturbati
tanto
il fatto non sussiste.
I miei compagni morti non sono
mai esistiti
sono svaniti nel nulla.
I miei compagni operai
morti
non possono tollerare
questa vergogna.
Non possiamo sopportare
questo insulto.
Nessun padrone
nessun tribunale
potrà mai recingerci
di un così grande
infame silenzio.[/mk_blockquote][vc_column_text]

Ferruccio Brugnaro_150 grammi di pane L’inespressività, il silenzio a cui induce la vita di fabbrica viene rotto e conquistato dai loro versi. Versi di chi le macchine le conosce per quotidiano corpo a corpo ed a esse non ha sacrificato ogni parola.
Tommaso di Ciaula, invece era contadino pugliese e tuta blu. Lui è l’uomo dei forni, la cui avventura durerà quante sono le montagne di ferro da plasmare.

[/vc_column_text][mk_blockquote]IO SONO L’UOMO DEI FORNI
Io sono il dio vulcano dell’officina:
quello che vi acceca
con zaffate di fumo,
che vi soffoca
con sulfuree nubi
e vi spaventa
coi fuochi coi lampi.
Io sono l’uomo della tempera
dalle larghe cicatrici,
giorno per giorno
tra questi olii
tra questo fuoco rosso
la mia pelle si copre di piaghe
facendomi somigliare
ad un piccolo mostro.
Impazzisco di caldo
tra i forni l’estate
meglio l’inverno
io sono l’uomo
di questo piccolo inferno
io sono l’uomo delle scottature
queste sono le mie avventure.

LA MIA AVVENTURA
Ammucchiare sudore
col sole
al canto lontano delle cicale.
Ammucchiare sudore
col freddo
all’urlo lontano del vento.
Formare montagne di trucioli
con in cambio
una busta elegante
ma con pochi soldi da campare.
Questa è la mia avventura
che dura
finchè ci saranno
montagne di ferro da plasmare.

***

[/mk_blockquote][vc_column_text]Tommaso Di Ciaula_150 grammi di pane

Dopo la resa al mercato del potere e l’abbattimento di ogni etica commerciale, tutto il mondo diviene riserva di produzione.

La Cina diviene la fabbrica del mondo per eccellenza.

Da cui vien quasi tutto ciò che si consuma. Dal cibo, agli utensili, ai vestiti, ai giocattoli alle cose più impensabili.
Anche qui l’uomo è strappato alla natura e reso vite di una catena di montaggio.

Decine di migliaia di lavoratori in riga. Come sillabe su un foglio.
Shenzhen è la città simbolo del miracolo economico cinese. Trent’anni fa era solo un paese di pescatori di fronte alla colonia britannica di Hong Kong. Oggi è una delle città più ricche della Cina.
Il PIL procapite nel 2013 era di 12mila euro, con una crescita che si stima intorno al 13 per cento all’anno.

L’età media non raggiunge i 29 anni e il 95 per cento della popolazione fa parte dell’esercito dei migranti che si trasferisce in città in cerca di un futuro migliore. Sono ambiziosi e non sopportano l’idea di tornare a casa a seguito di un fallimento. Ma, come ha scritto Xu Lizhi, “una volta che entri in fabbrica, l’unica scelta che ti rimane è la sottomissione”.
Generazione anni ’90, i figli del miracolo economico. Nati dopo le manifestazioni di piazza Tienanmen, sono i figli del controllo sulle nascite. Migranti di famiglia contadina che non sanno cosa significhi coltivare un campo. I genitori gli hanno pagato la retta scolastica fino a quando non sono stati bocciati e il loro percorso di studi si è interrotto. Così si sono ritrovati nei padiglioni di una fabbrica di una città sconosciuta ad eseguire le commesse del mondo intero narcotizzato dai consumi.
Usciti dal rigido controllo del sistema scolastico, pensavano che il lavoro li avrebbe resi liberi. Ma la realtà li ha subito riportati con i piedi per terra.
Anche Xu Lizhi è uno di loro a cui la fabbrica prosciuga vitalità e sogni. Ma Xu torna a casa “Uno spazio di una decina di metri quadrati, angusto e umido. La luce del sole non entra neanche un giorno all’anno. Qui mangio, dormo, cago e penso. Tossisco, ho mal di testa, invecchio. Mi ammalo, ma non muoio” e riversa l’ultima parte che rimane di un ragazzo di venti anni, sulla carta ingiallita. Il resto è catena di montaggio, anche 12 ore al giorno nei picchi di produzione.
Narra dell’ultimo desiderio, quello di vedere l’oceano, della somiglianza con il nonno, del conflitto con una società che ingurgita il suo futuro, dei salari negati. Dell’addormentarsi in piedi, stremati alla catena di montaggio. Della totale assenza di rumore che fa una vite quanto un uomo che cade senza forze alla sua postazione di lavoro. Xu Lizhi torna a casa e rende universale il cammino della sua generazione.
Torna a casa e scrive.

[/vc_column_text][mk_blockquote]Sul letto di morte
Voglio guardare per l’ultima volta l’oceano,
immergermi nelle infinite lacrime di in una vita spezzata
Voglio scalare un’altra montagna,
provare a riprendermi l’anima che ho perduto
Voglio toccare il cielo, sentire quel blu così luminoso
Ma niente di tutto questo mi è concesso, quindi lascio
questo mondo
Chiunque abbia sentito parlare di me
non si sorprenda del mio abbandono
tanto meno sospiri o soffra
Come in punta di piedi sono arrivato così me ne andrò.
30 settembre 2014

Mi addormento, proprio così, in piedi
La carta davanti ai miei occhi ingiallisce
con un pennino d’acciaio la incido di un nero irregolare
piena di parole come officina, catena di montaggio,
macchina, libretto di lavoro, straordinari, salari…
Mi hanno addestrato ad essere docile
Non so come gridare o ribellarmi
Come lamentarmi o denunciare
So solo sfinirmi in silenzio
Quando ho messo piede la prima volta
in questo posto
speravo solo che la grigia busta paga,
il dieci d’ogni mese,
potesse donarmi un po’ di conforto
Per questo ho dovuto smussare gli angoli
e le mie parole
Rifiutare di saltare il lavoro,
Rifiutare le assenze per malattia,
Rifiutare il permesso per questioni private
Rifiutare di arrivare in ritardo,
Rifiutare di andar via prima
Alla catena di montaggio rigido come il ferro,
le mani che volano
Quanti giorni, quante notti
E’ proprio così che mi sono addormentato in piedi?[/mk_blockquote][/vc_column][/vc_row]

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Nutrizionista e Fitoterapeuta