“Datevi da fare non per il cibo che non dura,
ma per il cibo che rimane..”
Giovanni Evangelista, 6, 22-29
Dal 1980 a oggi, l’obesità è aumentata in quasi tutti i paesi del mondo. Più di 70 paesi la vedono quasi raddoppiata e, purtroppo la vedono addiritura triplicata alcuni stati in via di sviluppo, come la Cina, il Brasile e l’Indonesia, sia negli adolescenti che negli adulti.
In Italia, il 46% degli adulti, ovvero oltre 23 milioni di persone, e il 24% tra gli under 18 anni, vale a dire 1,7 milioni, è in eccesso di peso.
Il problema è più diffuso nelle regioni del Sud, dove sono ben il 32% e 26%, rispettivamente, i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso.
Tristi primati.
La Campania è la regione di Italia con il più alto numero di individui obesi e sovrappeso.
L’eccesso di peso non è un problema ‘semplicemente’ estetico. Per quanto la forma fosse sostanza per gli antichi.
Eccessi ponderali importanti classificati come sovrappeso, e la più grave obesità, sono l’anticamera di scompensi e manifestazioni infiammatorie che, se protratte nel tempo si tramutano nelle più note patologie del secolo e prime cause di morte.
Dal diabete di tipo 2 all’ipertensione arteriosa, dalle patologie cardiache alle malattie croniche renali in età adulta. Senza dimenticare l’evidenza sempre più supportata di cattvi stili di vita sull’insorgenza di alcuni tumori.
Non trovo una casualità se, la maggior parte dei pazienti deceduti, in seguito all’infezione di Covid 19, presentavano queste complicanze.
Un discorso accettabile sulla salute, politiche serie sulla sanità non possono prescindere dalla preoccupazione di corrette indicazioni sul cibo che mangiamo inteso come nutrimento non come compendio di calorie utili ad essere bruciate. Inteso come ricostituente non come meccanico soddisfacimento di un bisogno.
Tale invito ha una finalità ricreativa.
Iniziare a preoccuparsi del mantenimento della salute é meno complesso, per il singolo, e soddisfacente, per l’operatore, dell’occuparsi della malattia. Rivedere il concetto di prevenzione come gestione di se stessi, preferita alla probabile sofferenza che ne deriverebbe altrimenti, é un atto di amore che non la prevenzione come comunemente intesa oggi, cioè l’attesa ineluttabile che un male compaia, con la migliore delle prospettive nel suo riscontro nelle prime fasi.
Il Progetto Trotula
Quando nacque il progetto Trotula presso il P. O. U. Andrea Tortora di Pagani, futuro polo oncologico di riferimento secondo i piani sanitari della regione, ci credevano in pochi. Ma forse quelli giusti.
L’infermiera caposala del reparto di Ematologia ed Oncologia, fu un ponte sensibile ed entusiasta fra le mie competenze, in cerca di una nuova esperienza, e il sogno del direttore Direttore responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Onco-Ematologia di offrire, ai pazienti che seguiva, un servizio di nutrizione loro dedicato. Con il tempo e la conoscenza anche gli altri medici iniziarono ad interessarsi alla possibilità di integrare i loro protocolli terapeutici con specifici percorsi nutrizionali.
L’ambulatorio si è affiancato, in questi anni, al servizio di psiconcologia già attivo in ospedale e da volontari con specifiche competenze, oltre me: una biologa nutrizionista che mi ha affiancato nelle visite, una chef che ha elaborato delle versioni salutistiche di alcuni piatti, una chimica industriale che si è occupata di fare chiarezza sul mercato degli integratori, un web marketer che ha seguito la parte comunicativa del progetto.
Il progetto nasceva per seguire con piani alimentari dedicati, inizialmente, i pazienti oncologici ed ematologici. Aveva una serie di ambiziosi intenti. Primo fra tutti ricordare al paziente e alla sua famiglia, trama ancora più stretta durante la malattia, che non tutto era perduto. Anzi la maggior parte del lavoro cominciava da loro, a casa loro. Chiedevamo con forza, di guardare l’opportunità che la malattia suggeriva. Rivedere quello che contribuisce ad ammalarsi. Magari i propri stili di vita.
Ci siamo proposte di accompagnare i familiari, durante il trauma della malattia e della gestione di un loro caro, e tranquillizzarli attraverso gli strumenti che ci competevano. Suggerire loro che cibi preferire, come associarli ed in che modo cucinarli significava suggerire come stare accanto a chi amavano divenendo essi stessi nutrienti. Riconoscerli come integrazione della terapia. Infine, ultimo intento ma forse il più ambizioso, rendere il paziente uno strumento di educazione alimentare familiare e prevenzione del rischio associato. La necessità di occuparci dell’assimilazione di questi cibi o di coadiuvare l’azione di alcuni farmaci di ultima generazione nella lotta al cancro, ci ha ispirato una serie di disegni di studi clinici.
Da circa tre anni 3 mattine a settimana, tutto l’anno garantiamo questo servizio. L’ambulatorio è separato dai reparti d’interesse.
Si trova su un altro piano, come se le prestazioni che fornisse fossero di un’altro specie. Ci piace pensare che la loro natura abbia a che fare con l’approccio terapeutico che verrà.
È accanto allo spazio in cui avvengono le chemioterapie giornaliere. Accanto alla sala di attesa di pazienti e familiari. Chi aspetta, chi soffre e chi e chi nutre speranza.
In questi anni ho conosciuto personale medico e infermieristico che svolge molto più delle mansioni previste. Alcuni ed alcune di loro, in particolare, non smettono di lavorare neanche quando tornano a casa, dopo l’ultimo paziente non previsto, e visitato.
In uno scenario in cui nessuno si preoccupa di far diminuire la possibilità di ammalarsi, le file, le attese e il personale sempre sottostimato sembrano essere qualcosa di immutabile. Se si fa dello straordinario l’ordinario, è già questa l’anomalia.
È già questa una crisi, che se non vede superamento innesca una cronicità pericolosa. Come vivere sul costone di un burrone. Quando le pietre di questo limite iniziano a cedere, non ci si dovrebbe stupire della caduta.
Lockdown: 1, 2, 3 chiusi tutti…
L’ Ambulatorio è rimasto aperto fino al 13 marzo. Data in cui per indicazione regionale sono stati sospesi tutti i servizi ambulatoriali.
Quando é stato chiaro che la reclusione non sarebbe durata un paio di settimane, ci siamo ricordate che l’atto terapeutico é innanzitutto atto di presenza, a noi.
Ho iniziato a contattare i pazienti, attraverso mail e telefono. Molti di loro non avevano, per la confusione accentuata da questa infezione, la possibilità di parlare con i medici con cui erano in contatto normalmente in ospedale. Il fatto stesso di ricordare loro che erano ancora seguiti, in qualche aspetto, diveniva un punto fermo nello stravolgimento.
L’angoscia dell’imprevisto, dell’ignoto, ci rendeva vulnerabili, facili prede del disordine, in un momento in cui rimarcare un ‘ordine nelle proprie vite era l’unica via possibile.
La corsa ai supermarket rende bene l’idea dei bisogni primari in questa società.
La prima paura era di rimanere senza cibo, forse più forte del rimanere senza denaro. Poi il suo consumo. Non il suo utilizzo ma il suo consumo meccanico, al limite fra il mantenersi in vita e l’accelerazione della fine. Questo pensiero mi ha spinto in mezzo alla confusione totale a ribadire la presenza di un servizio come il nostro.
Dal momento in cui sono stati contattati, i pazienti hanno iniziato a comunicarmi il peso ed altre notizie ad intervalli regolari, cosa mangiavano, come si sentivano.
Per tanti, la richiesta di quella comunicazione, é stata un margine che ha permesso di non debordare in eccessivi disordini alimentari. Abbiamo realizzato e diffuso degli articoli su come alcuni nutrienti lavorino in supporto delle difese immunitarie, rendendo fruibili le ultime acquisizioni della ricerca scientifica. Questi articoli, raccolti oggi in un lavoro che si chiama Immunità globale, facevano chiarezza anche sui prodotti che di volta in volta venivano reclamizzati come miracolosi.
Attraverso essi, volevamo supportare ed aumentare la consapevolezza degli sforzi alimentari di queste persone e rimanere come riferimento rispetto a tante notizie più o meno infondate che giravano su web e media.
Infine, per ribadire l’importanza dell’esercizio fisico, nel concetto del mantenimento della salute e determinare un nuovo elemento di distrazione rispetto al bollettino di morti e infetti con cui l’informazione bombardava la nostra buona volontà, abbiamo elaborato degli esercizi fisici, grazie ad un trainer, così semplici e adatti a tutti, che li abbiamo battezzati ‘Esercizi da divano’.
Dopo Pasqua, ho chiesto ai medici responsabili del servizio di poter tornare fisicamente in ospedale. Era per me importante ribadire anche con la presenza fisica che il servizio continuava, che l’intera comunità dell’ospedale se ne era riappropriata, non come accessorio ma come fondamentale. Inoltre, questo mi permetteva di poter continuare a seguire i pazienti in degenza, con i tempi e le precauzioni del caso.
Il progetto in protocollo di intesa con l’ASL Salerno è tuttora sostenuto da un sistema di raccolta fondi. Da una comunità che non di rado supplisce e supera, nel sostegno al pubblico servizio, le autorità preposte.
La parola crisi
Crisi viene dal greco krino, separare o più in senso lato discernere, valutare.
Ogni crisi è anche un momento di valutazione, di bilancio fra cosa lasciare e cosa portare con sé. È l’opportunità del passo per l’evoluzione da compiere, pena la stasi eterna e quindi la morte.
Anche quella conseguente alla comparsa di questo nuovo virus è un’opportunità di scelta. Questa nuova pandemia è venuta fuori da un mercato dell’estremo oriente. In fondo, da una questione di cibo. L’animale che incubava il virus sarebbe stato cibo e guadagno per altro cibo per chi lo aveva catturato e venduto. La constatazione che provenga da uno dei posti più poveri al mondo, suggerisce che la povertà non serve a nessuno e quindi dovrebbe essere preoccupazione di tutti.
Ha messo in luce la fragilità di un sistema sanitario basato solo sulla ospedalizzazione nella gestione della malattia e ricucito il peccato originale della separazione. E’ nella paura di ciò che sarebbe avvenuto, che ci siamo cercati in ogni modo e spesso trovato il tempo di rimetterci in contatto con noi stessi o con un amico.
Una nota antropologa americana, Margaret Mead, dichiarò che il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito. Una questione sanitaria, potremmo dire oggi.
Nel regno animale se ti rompi una gamba muori. La bestia ferita non può scappare ed è cibo per predatori. Nessun altro animale ti porta al riparo e curandoti passa del tempo con te rimettendoti a nuovo. Nella civiltà che verrà potremmo scegliere di non utilizzare la debolezza come strumento di connessione. Lasciare che la relazione avvenga come pratica di salute condivisa
Quale sarà la nuova umanità che uscirà da questi giorni?
So che se potessi immaginarla innanzitutto la vorrei più matura. Più matura nel senso di più consapevole di dove si trova, delle conseguenze, vicine e lontane, dei propri gesti e delle proprie scelte. Più matura, nel senso di in grado di badare a se stessa e quindi più in salute.
Se si ridomandasse, ad un’antropologa del futuro, da dove è nata la civiltà dopo Covid-19 potrebbe, magari, rispondere da un ortaggio piantato o dalla preparazione di un pasto. O da un esercizio di ginnastica.
“Il cibo che rimane: impulsi e riorganizzazione di un servizio di nutrizione clinica intorno al paziente e per suo mezzo ai tempi del lockdown 2020”
link=”https://youtu.be/DKUpraE5mN4”